Darkthrone – “Plaguewielder” (2001)

Artist: Darkthrone
Title: Plaguewielder
Label: Moonfog Productions
Year: 2001
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Weakling Avenger”
2. “Raining Murder”
3. “Sin Origin”
4. “Command”
5. “I, Voidhanger”
6. “Wreak”

Sarebbe parecchio complicato trovare un’etichetta discografica capace di influire sullo scenario estremo norvegese più di quanto abbia fatto Moonfog Productions durante l’avvicendarsi tra secondo e terzo millennio. A riprova di ciò non v’è esclusivamente la qualità intrinseca delle varie pubblicazioni, ma in special e forse ancor maggiore modo il peso specifico che quei lavori hanno avuto nel determinare l’humus norreno ed i suoi connotati tematici e musicali nel periodo, talvolta aggiornatisi quasi di pari passo a ciò che arrivava sugli scaffali dei negozi con la sigla FOG stampata sopra: una volta rilasciato l’immenso Nemesis Divina”, non a caso uno dei rarissimi album nel genere a dare la viva, nitidissima impressione immediata di un autentico punto di arrivo per tutto l’ambiente ove venne concepito, il progetto editoriale di Satyr si imbarca in operazioni tanto rinomate oggigiorno quanto coraggiose all’epoca, col decisivo triangolo ormai riconosciuto dagli affezionati e formato da “666 International”, “Rebel Extravaganza” e Thorns” a svettare su tutte le altre scommesse che, a prescindere dai riscontri di critica e pubblico, rivelano l’abilità del Sigurd Wongraven nel tenere alta l’attenzione dei fruitori su ogni uscita (si passa infatti dal cambio di pelle dei Gehenna nel tris intriso di morchia stampato tra ’98 e ‘05 all’esordio sempre nel 2001 della sensazione Khold dopo lo stop dei Tulus).
Difficile comunque attribuire al solo ’99 Moonfog Sound l’impatto degli opus in questione, senza dare il dovuto merito alla geniale simbiosi tra le frequenze sintetiche lì sopra ascoltabili e quelle copertine opache e gelide, frutto e parto di una visione distruttiva comune, controparte estetica dell’incubo meccanico da horror sci-fi che contagia e prolifera, alla stregua di una psicosi di fine secolo, una cerchia di artisti intenzionati ognuno a modo suo a spingere il Black Metal verso un futuro nerissimo.

Il logo della band

Ma come può reagire di fronte a tutto ciò la band che più d’ogni altra sta lottando in prima linea per preservare lo spirito originario da cui quegli stessi compagni di viaggio sono partiti, addirittura muovendosi all’interno della medesima label che sta foraggiando tale rivoluzione audiovisiva? I Darkthrone del 2001 provengono da una serie di release abbastanza interlocutorie, figlie -più che del proprio tempo- del loro bisogno di affrancarsi dai tradizionali connotati True Norwegian ormai già compromessi dalle prime avvisaglie dell’esposizione mediatica vista allo scadere del decennio: insieme allo speculare Death Metal del riesumato e ritrovato “Goatlord” il 1996 è l’anno delle venature Black/Thrash ‘N’ Roll di “Total Death”, mentre durante il cruciale 1999 dei menzionati Dødheimsgard e Satyricon “Ravishing Grimness” dilata ritmi e strutture come in pochissimi avevano tentato senza scadere nell’imitazione di Burzum.
Due anni più tardi, “Plaguewielder” si presenta al mondo con un artwork in puro stile Moonfog disegnato nientemeno che dal beniamino di casa Snorre Ruch, e con una produzione che porta avanti la ricerca di un suono a metà tra le aperture raschianti della trilogia sconsacrata e una ritrovata concretezza dispiegata già sul precedente full-length e proveniente dai vecchi cari e riveriti LP di Hellhammer e Celtic Frost, più che una semplice influenza ormai l’unica stella polare che il duo ha accettato di seguire sin dai tempi di “Panzerfaust”; del resto, prima di trasformarsi nella pietra tombale posta sulla vena artistica dei Darkthrone, l’aura del leggendario binomio svizzero era servita allora come grimaldello per scoperchiare gli sterminati riferimenti incastonati nel DNA di Nocturno Culto e Fenriz, e la mutevole fase creativa tra il 1996 e il 2004 ha in verità il grandissimo sebbene sottostimato merito di aver saputo giocare con essi senza mai sfociare nel goliardico spirito filologico affermatosi dopo il rivoluzionario quanto riuscito The Cult Is Alive”.

La band

Non più dunque impegnati ad occultare sotto tonnellate di gain il loro approccio classicheggiante alla materia, i due strumentisti si concentrano sul tiro dei riff e rimettono al centro del discorso la dinamica che un po’ aveva latitato due anni prima su “Ravishing Grimness”. Forse il lavoro maggiormente distante per concezione strutturale dall’afflato Punk oggi pressoché sinonimo del monicker, “Plaguewielder” si compone invece di pezzi articolati su ritmiche estremamente malleabili, con ognuno dei sei capitoli a viaggiare sospeso tra almeno un paio di cambi di tempo. A riprova della fedeltà al verbo di Tom Warrior, sono i mid-tempo il terreno di caccia prediletto dai norvegesi sin dal trascinante avvio di “Weakling Avenger”, magazzino distopico di giri chitarristici assemblati con perizia ed agilità nonostante la potenza schiacciante del sound design li faccia apparire gonfi e pachidermici non meno del break assassino che richiama uno stile di pennate irripetibili tutto Moonfog 1995-1999 sulla successiva “Raining Murder” e l’incedere altezzoso di “Command”, quest’ultima la punta di diamante dell’opera per il modo in cui continua a mutare il passo con una fluidità oggi totalmente fuori portata per gli stessi Darkthrone: la batteria di un Fenriz qui seriamente in stato di grazia (come su tutto il disco a ben voler sentire) spinge la muscolare sezione introduttiva verso le rapide del più classico Black Metal, affluenti di un refrain indiavolato ed orchestrato dalla chiamata alle armi dei complici Apollyon di casa Aura Noir e Sverre Dæhli dei thrasher locali Audiopain.
Per quanto infatti ci si trovi comunque lontanissimi dalla svolta caciarona intrapresa in contemporanea al ritorno sotto Peaceville Records, è sempre il celebre drummer a disseminarne presagi nella forma di arrembanti divagazioni Black & Roll ora rivolte al deviante appeal marziale di “Rebel Extravaganza” ed ora intente a rivangare una volta ancora l’eterno fascino esercitato dai numi tutelari rossocrociati. Seguito spirituale della “The Beast” incisa sul predecessore ed anch’essa l’unica track ad essere vergata dal solo Fenriz, “Sin Origin” apre così un varco spazio-temporale verso la Svizzera del 1984 con quel soverchiante riff di pura discendenza Hellhammer, il quale a sorpresa collassa in un rallentamento con tanto di cibernetiche dissonanze in odor di Voivod (riprese senza paura nella fin troppo poco celebrata “I, Voidhanger”) secondo l’usanza darkthroniana degli incroci soltanto in apparenza scriteriati; un’abitudine che non risparmia nemmeno gli stessi autori, che nella conclusiva “Wreak” ripartono perciò dalle cadenzate partiture dei Celtic Frost, sbandano sulle strofe a corda vuota secondo il gusto Black/Thrash accarezzato su “Total Death” e chiudono con un lead proveniente da un passato mai sepolto fatto di lune funeree e fame transilvana, riconducendo tutto alla dimensione di eterno presente che è cifra fondamentale di qualsivoglia opera o artista di natura postmoderna.

Ad ogni critica che ne stigmatizza l’abbandono delle rivoluzionarie coordinate tracciate nell’Unholy Trinity consegnata alla leggenda tra 1992 e 1994, è chiara usanza dell’istituzione di Kolbotn evidenziare come già ai tempi, sepolte sotto quel suono difficile e sfigurato, facessero la loro comparsa molteplici citazioni a quei numi tutelari oggi alla base del loro operato in studio di registrazione. Ebbene, il periodo che porta dall’interlocutorio “Total Death” al meritevole di celebrazione “Sardonic Wrath”, parimenti screditato dagli sparuti talebani rimasti fermi a “Panzerfaust” ed ignorato dalle ben più numerose fashion victim dell’estetica a base di toppe sdoganata nella seconda metà degli anni Duemila, può essere interpretato come l’involontaria curtain call che ha permesso agli appassionati di vedere per la prima volta al di là proprio delle quinte: di spiare con occhio indiscreto il retroterra di suggestioni esterne che fino ad allora era rimasto nascosto dalle magnetiche scenografie, e che i re nudi Fenriz e Nocturno Culto avrebbero imbracciato prima come arma per una temporanea operazione di stampo ideologico concretizzata nel 2006, e poi via via come strumento di legittimazione dell’attitudine oscillante tra pastiche ed ammissione di colpa riguardo un’ispirazione fallata.
Il 2001 è l’anno di La Grande Danse Macabre”, di “Monumension” e di questo “Plaguewielder”, tre episodi che dal canto loro testimoniano la chiusura su sé stessi dei veterani scandinavi durante un’epoca di sconvolgimenti interni al movimento e a cui si risponde con platter istintivi, vicini al proprio forte sentire e proprio per questo sorprendentemente accantonati persino dai più fedeli sostenitori. La Storia però si è già espressa in maniera opposta; la crudezza della fase mediana dei Darkthrone, equidistante dal precedente sublime e dal futuro disimpegno, rimane difatti come nel caso degli altri due gruppi menzionati un tassello irrinunciabile per la comprensione di una band mille volte più complessa di quanto, a vent’anni da un frammento tutt’oggi di ardua collocazione e capace di far saltare ogni schema precostituito, sia fan che detrattori possano anche soltanto immaginare.

Michele “Ordog” Finelli

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